domenica 7 novembre 2010

IN GABBIA

Lo scorrere lento del tempo. Le improvvise accelerazioni. La persistente e ricorrente frequenza degli incroci che sfuggono a ogni controllo. Le coincidenze. Gli appuntamenti mancati. Le occasioni perse. Le incomprensioni, i malintesi. Tutto riconducibile, in ultima analisi, al suo pessimo rapporto col tempo. Alla totale inconciliabilità dei suoi tempi coi tempi del resto del mondo. O della sua parte preponderante, se non si vuole correre il rischio di apparire troppo manichei. Ma, forse, in fondo, è un po' così per tutti. Solo che non tutti se ne rendono conto. Solo che non tutti quelli che se ne rendono conto, poi, sono anche disposti ad ammetterlo. Tutti... Ecco: «Tutti... Altro dannato assolutismo del cazzo!»
A queste e ad altre consimili allegre amenità – qui brevemente sintetizzate – Marco dedicò, in realtà, svariati quarti d'ora del suo imprevisto e inaspettato soggiorno in cella. Più che altro, il suo era un modo per estraniarsi temporaneamente da quella dimensione assurda in cui, rimasto solo, si era, di colpo, trovato proiettato. Un modo per non sentire le urla, soprattutto. Non solo le urla di dolore degli occasionali compagni di sventura, pestati selvaggiamente. Non solo le urla dei neofascisti – molti in divisa, qualcuno in doppiopetto – che si beavano delle umiliazioni inflitte a prigionieri inermi, del tutto impreparati ad affrontare una situazione del genere. Un modo per non sentire più i lamenti, anche. Perché è difficile resistere al dolore fisico senza emettere nemmeno un lamento. Perché alcuni gemevano anche a causa delle subdole tecniche di svilimento psicologico. Ed è davvero difficile discernere quale delle due situazioni fosse la peggiore; la più dolorosa. Perché costringere delle persone a rimanere immobili per delle ore con le braccia alzate non è meno doloroso delle percosse. Perché le ripetute minacce di sterminio apparivano più che credibili, in un clima dove ogni principio di legalità pareva svanito nel nulla. Perché la pretesa che i necessari bisogni fisiologici venissero soddisfatti, usando bagni fetidi, le cui porte dovevano restare rigorosamente spalancate, veniva spacciata come una conquista, a fronte dei tanti «Fattela nelle mutande, se proprio non riesci a trattenerla!», venuti fuori, in quelle ore interminabili, dalle orrende bocche degli aguzzini dei tanti manifestanti fermati in una delle piazze genovesi della rivolta. Già, la rivolta. La rivolta fatta con le mani alzate. La rivolta da sedare, fermando e torturando gente pacifica, dopo aver permesso ai devastatori bardati di nero di agire indisturbati. L'ipocrita repressione violenta di una rivolta creata ad arte. Col suo puzzo rancido di sangue rappreso e di liquidi organici, a memento imperituro di quell'indegno scempio.